La Germania legalizza l’uso della marijuana alla guida: i limiti e i dubbi

Rassegna Stampa: Pubblicato il 28/08/2024 da QUATTRORUOTE – Fonte: https://www.quattroruote.it/news/sicurezza/2024/08/27/germania_legalizza_marijuana_alla_guida_.html

La Germania apre alla marijuana quando si guida, seppure con numerosi paletti. Chi ha la patente da oltre un biennio o un’età superiore a 21 anni può mettersi al volante con un valore al di sotto di 3,5 nanogrammi di tetraidrocannabinolo (THC la componente psicoattiva della pianta di canapa) per millilitro di siero: corrisponde a circa 1,8-2 ng/ml di sangue. Sopra questa soglia, multa di 500 euro e sospensione della patente per un mese: il controllo ai conducenti viene effettuato con un prelievo di saliva e, qualora sia necessario, un prelievo di sangue. Se prima il Codice della strada tedesco prevedeva un limite solo per l’alcol, adesso lo stabilisce anche per la cannabis. È tuttavia vietato condurre veicoli in condizioni alterate al contempo da marijuana e alcol: in questo caso, l’ammenda è di 1.000 euro.

Questione controversa. La novità arriva dopo la liberalizzazione parziale della marijuana decisa da Berlino. Per la guida, la soglia è stata individuata da una commissione di esperti, secondo i quali non ci sarebbero ricadute negative in termini di sicurezza stradale. Non esiste tuttavia uno studio scientifico definitivo che dimostri l’assenza di nocività della marijuana in relazione alla guida dell’auto. E non si può escludere che le sostanze della canapa, penetrando nel sistema nervoso centrale, ne alterino le funzioni, determinando un calo dell’attenzione. 

In Italia. Il nostro Codice della strada (articolo 187) vieta la guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti di qualsiasi tipo, anche leggere. Affinché scatti la multa (composta da numerosi elementi, fra l’altro ammenda di 1.500 euro), c’è la valutazione clinica dello stato, basata pure sulla concentrazione ematica del THC. Viceversa l’articolo 186 fissa in mezzo grammo per litro di sangue il limite massimo di alcol, con tolleranza zero per neopatentati e conducenti professionali (186-bis).

Parola all’esperto. Stando ad Aldo Polettini, professore associato di Tossicologia forense presso il dipartimento di Diagnostica e Sanità pubblica dell’Università degli Studi di Verona, “è opportuno che in Germania si sia fissato un limite di concentrazione del THC: consente di stabilire in maniera oggettiva il divieto di porsi alla guida di un veicolo. In Italia questo limite non esiste e la versione attualmente vigente è fonte di contenzioso: la valutazione clinica dello stato di alterazione basata anche sulla concentrazione ematica del THC è soggetta a numerose variabili, e il giudice non ha strumenti oggettivi per stabilire la violazione della norma. È in discussione in Parlamento un disegno di legge che prevede la modifica dell’articolo 187 del Codice della strada: multa qualora dagli accertamenti qualitativi non invasivi o dalle prove effettuate dagli organi di Polizia stradale emerga la positività del conducente all’uso di sostanze stupefacenti, anche se non sono ancora stati definiti i limiti di concentrazione del THC e di altre sostanze nel sangue. Quindi, anche il nostro Paese si sta muovendo nella direzione di una definizione oggettiva del reato. Si tratterà di vedere se tali limiti saranno individuati alla luce di valutazioni scientifiche, come ha fatto la Germania”.  

Ddl sicurezza, approvata la stretta sulla cannabis light. Opposizioni: “Duro colpo per i migliaia di occupati del settore”

Rassegna Stampa: 1 Agosto 2024 -Il Fatto Quotidiano – Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/08/01/ddl-sicurezza-approvata-la-stretta-sulla-cannabis-light-opposizioni-duro-colpo-per-i-migliaia-di-occupati-del-settore/7643999/

Con il ddl sicurezza arriva una dura stretta sulla cannabis light. Le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera hanno lavorato tutta la notte per chiudere l’esame del disegno di legge. Numerosi gli emendamenti presi in esame. Tra le proposte di modifica approvate c’è anche un provvedimento che, di fatto, equipara la cannabis light a quella illegale, a base di Thc. È stata ritirata invece la proposta della Lega che voleva vietare l’immagine della pianta di canapa per fini pubblicitari. Per Riccardo Magi, segretario di +Europa, si tratta di un “duro colpo al settore che vede migliaia di occupati e una filiera completamente italiana”.

Dure le poteste dell’opposizione in Commissione per le tappe forzate su un provvedimento che non ha l’urgenza di un decreto. “Dal contingentamento dei tempi si passa a silenziare le opposizioni”, hanno detto Valentina D’Orso e Alfonso Colucci, capigruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione, dopo una ulteriore accelerazione decisa dalle presidenze. “Così nottetempo la maggioranza si approva le sue norme repressive e liberticide del ddl sicurezza con il favore delle tenebre“, proseguono. Critici anche i dem, per i quali si tratta di un “pericoloso precedente”.

“Il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese”, ha scritto Magi in un post su X. “Il governo Meloni, in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana, 11mila posti di lavoro. E pensano anche di aver fatto la lotta alla droga”, conclude.

Cannabis light tra sequestri e assoluzioni, i produttori trattati come narcos

Rassegna Stampa: La Stampa 04 Luglio 2024 di CLAUDIO LAUGERI – Fonte: https://www.lastampa.it/cronaca/2024/07/04/news/cannabis_inchiesta_controlli_sequestri-14445960/

Un settore da 3 mila aziende, 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. Le storie dei produttori: «Costretti a lavorare tra mille intoppi, siamo pronti ad acquistare i kit per i test rapidi»

Buongiorno, siamo della Guardia di Finanza. C’è questo pacco per lei». Dentro la scatola con i sigilli violati c’era un «campione» di qualche decina di grammi di infiorescenze di «canapa sativa», la base per il confezionamento di prodotti nella categoria conosciuta da tutti come «cannabis light», per via del basso contenuto di principio attivo (il Thc). Quando l’imprenditore si è trovato davanti i finanzieri ha sgranato gli occhi per il doppio stupore: per il pacco ritrovato (il corriere non si era più fatto sentire) e per la consegna del tutto particolare. Ci hanno pensato i militari a svelare l’arcano: i cani antidroga avevano fiutato il plico, loro lo hanno aperto e hanno controllato la merce. Il principio attivo era bassissimo, per la Guardia di Finanza era tutto regolare. E per evitare di causare un danno, hanno fatto la consegna di persona. «Chapeau», in un Paese dove un ufficio pubblico non parla con quello della porta accanto. Anche perché, sovente le lingue sono diverse.

Ed eccoci sbarcati nella Babele della «cannabis light», prodotto che diventa legale o illegale a seconda delle convinzioni ideologiche, o anche soltanto di quanto forze dell’ordine e magistratura decidono di tirare l’elastico dell’interpretazione delle norme. A qualche maligno potrebbe sembrare che la «cannabis light» sia soltanto un pretesto per uno scontro ideologico di portata ben diversa: i sostenitori (soprattutto a sinistra) della liberalizzazione della «cannabis» contro i detrattori della sostanza. Un settore animato da 3 mila aziende, con 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. E soprattutto, non esistono «caporalato» e lavoratori «in nero», per un effetto combinato di approccio etico e rischio elevatissimo legato ai tanti controlli: chi non è titolare di imprese o partite Iva ha il contratto del settore agricolo.

La giungla delle regole

Proviamo a fare chiarezza. In cima alla torre c’è il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea il 26 ottobre 2012, che all’articolo 38 disciplina la politica comune per agricoltura e pesca. Il provvedimento è legato al Trattato di Roma del 1957 sulla Fondazione della Comunità economica europea, ridefinito e applicato nell’ambito dell’Unione. A proposito dell’agricoltura, inserisce in una tabella tutte le coltivazioni di riferimento, compresi «semi, frutti oleosi; semi e sementi e frutti diversi; piante industriali e medicinali; paglie e foraggi». Nessun riferimento specifico alla canapa a basso Thc (l’altra è già fuorilegge), ma nemmeno viene esclusa. Anche perché, le piante possono essere utilizzate per estrarre fibre destinate a tessuti o come componenti di materiali edili.

La normativa arriva un paio d’anni dopo il tentativo della Francia di vietare le coltivazioni di canapa, frenato da una sentenza della Corte di Giustizia europea del 28 gennaio 2010: «La valutazione del rischio che lo Stato membro deve effettuare ha ad oggetto la stima del grado di probabilità degli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’impiego di prodotti vietati e della gravità di tali effetti potenziali».

Il vento francese, però, soffia oltre le Alpi e nel 2014 il governo italiano approva un decreto che modifica la normativa del 1990 in materia di droga, proprio puntando alla «cannabis»: viene messa fuorilegge in qualsiasi forma, dalle foglie, alle inflorescenze, all’olio, alla resina, senza riferimenti al Thc. Una sola eccezione: «la canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali» diversi da quelli illeciti già disciplinati. Partita chiusa, sembrerebbe. Ma non è così.

Nel 2016, l’Italia approva la legge 242 in materia in pieno stile «gattopardo». Dice, ma non dice, dispone, ma non predispone, offre una lettura cangiante che attira i più audaci e desiderosi di fare business, ma divide anche la giurisprudenza chiamata in causa dagli stessi imprenditori davanti a denunce e sequestri. Complice la scomparsa nella stesura definitiva del valore-soglia di Thc per definire l’illegalità della pianta. L’unico accenno sull’argomento è a tutela del coltivatore, che potrebbe ritrovarsi con piante dal Thc tra lo 0,2 e lo 0,6 pur avendo agito nella totale buona fede. Nella prima eventualità, accade nulla; nella seconda, merce sequestrata e distrutta, ma nessun procedimento penale. Sia chiaro, è difficile pensare che un trafficante sano di mente pensasse di sfruttare la coltivazione legale come «cavallo di Troia» per far passare per buona anche qualche piantagione illegale: sotto il profilo criminale, l’idea di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine con un’attività «borderline» non appare geniale.

E allora? La canapa è fuorilegge in ogni sua forma? Forse no, perché fatta (male) la legge, gli orientamenti della giurisprudenza si moltiplicano.

La Cassazione

In un pronunciamento del 2007 proprio in materia di «cannabis», le Sezioni Unite della Cassazione avevano stabilito: «È indispensabile che il giudice di merito verifichi l’idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante». E per maggiore chiarezza, la Cassazione argomenta: «Ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo (Thc, ndr) contenuto nella sostanza, bensì l’idoneità a produrre un effetto drogante». E qui, spunta il sorriso sulla bocca dei produttori di «cannabis light». Già, perché è possibile discutere se a un Thc alto possa corrispondere un «effetto drogante» punito dalla legge, ma a un Thc basso non potrà mai corrispondere un «effetto drogante». Ma per stabilire tutto questo, serve un processo.

Stefano (nome di fantasia) ha 38 anni. Ha studiato psicologia a Roma, dove vive. Nel 2017, decide di intraprendere l’attività di coltivatore di «canapa light». «Ho subito otto controlli in quattro anni e due volte sono pure finito a processo per traffico di droga. Sempre assolto», racconta. La volta che se l’è vista peggio è stata «nel 2018, la Polstrada è arrivata all’ora di pranzo nel magazzino dove essiccavo la canapa. C’era un forte odore, lo sentivano dalla strada. In pochi minuti, sono arrivate venti pattuglie. Mi hanno tenuto lì fino all’una di notte, poi in cella di sicurezza, fino al mattino dopo. Mi hanno fotosegnalato, preso le impronte. Il mattino dopo mi hanno rilasciato. Però, il verbale su quella sera è sparito. Se n’è accorto anche il capo dell’antidroga di Roma, che ha fatto un altro controllo due anni dopo in seguito alla spedizione di un pacco». L’odore non lascia spazio a dubbi. Per gli uomini, figuriamoci per i cani antidroga.

«Ma non tutti si comportano nello stesso modo – aggiunge Stefano -. Una volta sono venuti i carabinieri del Nas e gli ispettori dell’Aifa (Agenzia del farmaco, ndr). Hanno preso i campioni, ci hanno lasciato lavorare senza problemi. Due mesi dopo ci hanno mandato via Pec i risultati, era tutto in regola». In un controllo, però, la merce è rimasta sotto sequestro per «tre mesi. Erano 300 chili di materiale, abbiamo buttato via tutto». Anche se la sentenza è stata di assoluzione. Ma lui lavora ancora, collegato a «altre quattro aziende. In tutto, fatturiamo 8 milioni di euro, l’anno scorso 7 milioni e 200 mila». E questo dà l’idea di quale partita sia in gioco. Ancora: «L’Italia è tra i pochi Paesi europei dove è possibile coltivare in campo aperto, il clima è favorevole. Siamo i leader del mercato per questo».

Ma la legge non è uguale per tutti. Paola, 42 anni, nel 2019 decide di abbandonare la cartolibreria di famiglia e di aprire una piccola coltivazione di canapa. «Qui, il clima è ottimo per le florescenze. Ma la coltivazione per fare fibre tessili o per l’edilizia non funzionerebbe, ci sono costi troppo alti di trasporto, racconta. Un anno di lavoro, buoni risultati. Nel 2020, la produzione viene spostata «in altri due Comuni. Come avevamo fatto l’anno prima, abbiamo avvisato i carabinieri di quelle zone, anche se non eravamo obbligati a farlo». I magazzini, però, erano rimasti nel paese di partenza, a pochi passi dalla caserma dei carabinieri. Risultato: i militari arrivano e sequestrano sette quintali di merce in fase di essiccazione e denunciano Paola per traffico di droga. Il valore all’ingrosso è di 200 euro al chilo, il valore è di 140 mila euro. «Mi sono guadagnata il soprannome di “Paola Escobar”», scherza. Adesso. Ma in quei giorni, non aveva tanti motivi per sorridere. «Avevano calcolato un valore di 6 milioni, come se fosse marijuana». Alla fine, arriva l’assoluzione, ma soltanto per mancanza del fattore soggettivo. «Secondo i giudici di Oristano, è illegale staccare i fiori dalla pianta, ma hanno capito che non avevo la volontà di commettere un reato. Però, ora non potrei più fare quell’attività, definita illegale in quella forma».

Giudici e investigatori

L’orientamento dei giudici di Oristano è condiviso anche da quelli di Nuoro, ma non a Sassari dove l’imprenditore si è visto arrivare a casa la Guardia di Finanza con il pacchetto di canapa. Nel marzo 2021, la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari aveva addirittura inviato una direttiva alle forze dell’ordine e ai colleghi magistrati richiamando «il quadro normativo composito e apparentemente contraddittorio» in materia di canapa e invitando a seguire l’indicazione delle Sezioni unite della Cassazione, laddove qualificano «la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà». Tradotto: andate e sequestrate. Nessun accenno alla parte della sentenza dove gli ermellini parlano di «effetto drogante». Forse, questo «effetto tunnel» è legato alla situazione particolare della Sardegna, dove negli ultimi anni si sono moltiplicate le coltivazioni di marijuana. Un’attività sempre esistita, ma incrementata quando la ‘ndrangheta ha deciso di concentrare i propri business sulla cocaina, a parità di peso ben più redditizia. Investigatori e magistratura sono preoccupati che la Sardegna possa diventare (se già non lo è) leader nel mercato illegale di marijuana. Poi, ci sono le insinuazioni dei maligni: sradicare le coltivazioni di «cannabis light» consentirebbe di individuare con maggiore facilità le piantagioni illegali. Tesi che trasformerebbe la Babele simbolo dell’incomunicabilità nel set di un film di Ridolini.

Le soluzioni

Per riportare l’ordine nella Babele della «cannabis light» basterebbe una legge. Chiara. O è legale o non lo è. Punto. «Per accertare all’istante la percentuale di Thc esiste un test rapido dell’Università di Zurigo – spiega Mattia Cusani, presidente dell’Associazione canapa sativa Italia -. Immaginando che lo Stato non abbia le risorse per acquistare questi test, possiamo farlo noi. Non abbiamo problemi a dimostrare la nostra correttezza. È nel nostro interesse un controllo rapido». In tutto questo, c’è qualcuno che incassa senza rischi: il Fisco. Già, perché i coltivatori di «cannabis light» si sono premurati di sapere come potevano essere in regola nei versamenti e hanno chiesto lumi all’Agenzia delle Entrate. Ottenuta la risposta, hanno ottemperato. La torre di Babele è servita.

Passa l’emendamento del governo, stretta sulla cannabis light: a rischio 11mila posti di lavoro

Rassegna Stampa: 01/08/2024 – La Stampa – Fonte: https://www.lastampa.it/politica/2024/08/01/news/cannabis_light_ddl_sicurezza-14523070/?ref=LSHA-BH-P4-S2-T1

Ddl sicurezza, la Lega rinuncia alla castrazione chimica e al reato di integralismo islamico

Seduta fiume nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera che hanno lavorato tutta la notte e sono ancora riunite per chiudere l’esame del ddl sicurezza. Nonostante i tempi contingentanti mancano ancora numerosi emendamenti e si procede a oltranza. Tra le proposte di modifica approvate anche la stretta sulla cannabis light che, di fatto, la equipara a quella non light. Ritirata invece la proposta della Lega per vietare l’immagine della pianta di canapa per fini pubblicitari. Si tratta, commenta Riccardo Magi di un «duro colpo al settore che vede migliaia di occupati e una filiera completamente italiana».

Dure le poteste dell’opposizione in commissione per le tappe forzate su un provvedimento che non ha l’urgenza di un decreto. «Dal contingentamento dei tempi si passa a silenziare le opposizioni – hanno detto Valentina D’Orso e Alfonso Colucci, capigruppo M5s in commissione dopo una ulteriore accelerazione decisa dalle presidenze – così nottetempo la maggioranza si approva le sue norme repressive e liberticide del ddl sicurezza con il favore delle tenebre e senza il ‘fastidio’ delle opposizioni che li inchiodano alla loro pochezza. Una nuova vergogna firmata FdI, Lega e FI». Un «pericoloso precedente» anche per i Dem. Nella notte – viene riferito – è arrivata anche l’annunciata riformulazione degli emendamenti di maggioranza e opposizione che prevedono che gli agenti di polizia possano indossare le bodycam. Si va verso una seduta non stop fino a quella dell’Aula prevista alle 9.

«Il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese: nella seduta fiume di questa notte in commissione alla Camera è stato infatti approvato l’emendamento al ddl sicurezza che equipara la cannabis light a quella con thc. Il governo Meloni, in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana, 11mila posti di lavoro. E pensano anche di aver fatto la lotta alla droga…». Lo scrive su X il segretario di Più Europa Riccardo Magi.

La Lega – secondo quanto viene riferito – ha ritirato alcuni emendamenti. Tra gli altri, quelli sull’introduzione del reato di integralismo islamico, sulle prediche solo in lingua italiana e sulla castrazione chimica per gli stupratori.

La cannabis light è fuori legge, passa l’emendamento del governo. A rischio 11.000 posti di lavoro

Rassegna Stampa – del 01/08/2024 Repubblica di Alessandra Ziniti – Fonte: https://www.repubblica.it/italia/2024/08/01/news/cannabis_light_vietata-423424472/?ref=-BH-I0-P-S8-T1

Passa in commissione l’emendamento del governo che vieta la coltivazione e la vendita di infiorescenze, resine e oli. La Lega rinuncia alla castrazione chimica e al reato di integralismo islamico

Niente reato di integralismo islamico, niente obbligo di predicazione in italiano nelle moschee. E niente castrazione chimica. Alla fine la maggioranza di centrodestra ritira alcuni dei suoi emendamenti più discussi al ddl sicurezza Piantedosi. Ma sulla cannabis light il governo non torna indietro. E così, all’alba, dopo una seduta notturna fiume, l’emendamento che la equipara alla cannabis con principio attivo passa in commissione e approda nel testo finale del provvedimento che sarà portato in aula.

A rischio 11.000 posti di lavoro

“Il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese – annuncia Riccardo Magi di + Europa – Il governo Meloni, in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana, 11mila posti di lavoro. E pensano anche di aver fatto la lotta alla droga”.

Gli imprenditori del settore, a capo di circa 3.000 aziende in Italia, sono da tempo sul piede di guerra. Il provvedimento infatti vieta la coltivazione e la vendita di infiorescenze, resine e oli, dunque l’uso dei fiori di canapa così tanto usati in erboristeria e nella cosmetica o in prodotti artigianali, non di uso industriale, prodotti che – lo dice la scienza – non hanno alcun effetto drogante.

“Una grave sconfitta per la libera Impresa in italia. E’ stato, così, bloccato un settore in forte crescita, trainato soprattutto dai giovani agricoltori”. E’ questo il primo commento a caldo del presidente di Cia-agricoltori italiani, Cristiano Fini.

Il governo: “La cannabis light è droga”

Paventando «alterazioni dello stato psicofisico degli assuntori che mettano a rischio la sicurezza e l’incolumità pubblica e la sicurezza stradale», il governo è riuscito dunque a mettere fuori legge la cannabis light, per intenderci quella con bassissimo contenuto di Thc, equiparandola di fatto ad una droga leggera. Un presupposto senza alcun fondamento scientifico quello dell’emendamento al disegno di legge sicurezza riformulato a fine maggio dal governo per farlo passare al vaglio di ammissibilità della Commissione affari costituzionali di Montecitorio

Ritirato il divieto di usare l’immagine della pianta per pubblicità

L’unica cosa a saltare è stata una proposta della Lega che in un primo momento voleva persino vietare l’immagine della pianta di canapa per fini pubblicitari.

Seduta no-stop, protestano le opposizioni

Dure le poteste dell’opposizione in commissione per le tappe forzate su un provvedimento che non ha l’urgenza di un decreto. “Dal contingentamento dei tempi si passa a silenziare le opposizioni – hanno detto Valentina D’Orso e Alfonso Colucci, capigruppo M5s in commissione dopo una ulteriore accelerazione decisa dalle presidenze – così nottetempo la maggioranza si approva le sue norme repressive e liberticide del ddl sicurezza con il favore delle tenebre e senza il ‘fastidio’ delle opposizioni che li inchiodano alla loro pochezza. Una nuova vergogna firmata FdI, Lega e FI”.

Un “pericoloso precedente” anche per i Dem. Nella notte – viene riferito – è arrivata anche l’annunciata riformulazione degli emendamenti di maggioranza e opposizione che prevedono che gli agenti di polizia possano indossare le bodycam.

Il Marocco ha esportato per la prima volta della cannabis prodotta legalmente

Rassegna stampa dal Mondo: Il Post – Martedì 16 luglio 2024 – Fonte: https://www.ilpost.it/2024/07/16/marocco-cannabis-legale/

È uno dei principali fornitori sul mercato illegale, ma negli ultimi anni sta facendo degli sforzi per regolarizzare coltivazioni vecchie anche di secoli

La scorsa settimana il Marocco ha esportato per la prima volta della cannabis prodotta legalmente sul proprio territorio. Un carico da un quintale di resina di cannabis, cioè un estratto molto concentrato delle infiorescenze della pianta, è stato infatti venduto alla Svizzera, dove i prodotti della canapa sono autorizzati se presentano una percentuale di THC (la molecola che causa gli effetti psicotropi) inferiore all’1 per cento.

Nonostante le quantità di questa prima esportazione non siano state molto significative, la vendita è stata commentata sulla stampa locale con grande entusiasmo e aspettative per un settore potenzialmente molto remunerativo, dato che in Marocco si coltiva già parecchia cannabis ma in maniera irregolare e destinata perlopiù a trafficanti.

Già nel 2021 il Marocco aveva approvato un disegno di legge per legalizzare la coltivazione e la commercializzazione della cannabis per uso medico e industriale, con l’obiettivo di attrarre investimenti e creare nuove opportunità economiche. Ad oggi sono quasi 200 gli operatori attivi in questo settore che potrebbe rendere il paese molto competitivo su un mercato globale estremamente redditizio. Nel 2028 per la sola componente terapeutica dovrebbe superare i 50 miliardi di dollari (46,2 miliardi di euro), secondo una stima del fondo di investimento americano Insight Partners.

Lo scorso maggio la Federazione marocchina dell’industria farmaceutica e dell’innovazione (FMIIP) ha fatto sapere che il Marocco vuole assicurarsi una quota del mercato europeo della cannabis terapeutica compresa tra il 10 e il 15 per cento, che potrebbe generare un flusso di entrate annuo compreso tra i 4,2 e i 6,3 miliardi di dirham (circa 400-600 milioni di euro) da qui al 2028. Queste risorse, ha spiegato il presidente della FMIIP, serviranno anche a creare nuovi posti di lavoro e a stimolare il settore della ricerca e sviluppo farmaceutica.

L’azienda farmaceutica marocchina Sothema, che nel 2023 ha fatturato 230 milioni di euro, sta investendo da tempo nei medicinali a base di cannabis e ne ha sviluppati una quindicina per «patologie dolorose come tumori, sclerosi multipla o epilessia». Khalid El-Attaoui, direttore di Axess Pharma, specializzata in trattamenti antitumorali, prevede di commercializzare medicinali del genere entro il 2025 sul mercato marocchino e anche quello europeo, nonostante restino da rimuovere una serie di barriere normative piuttosto rigide, quando si tratta di farmaci psicotropi.

Un ruolo centrale in questa strategia lo sta svolgendo l’Agenzia nazionale per la regolamentazione delle attività legate alla cannabis (ANRAC, creata nel 2022), che si occupa di supervisionare, regolamentare e aggiornare le norme cui è sottoposto il settore. Secondo l’ANRAC la cannabis marocchina, che dai giornali locali viene definita “oro verde”, potrà essere utilizzata in vari settori: non solo quello medico, ma anche quello tessile o dell’edilizia, grazie alla possibilità di sfruttare la pianta della cannabis in modi diversi.

Alcuni mercati di nicchia, come quello dei trattamenti per animali con prodotti a base di CBD, un principio attivo non psicotropo i cui ricavi globali sono aumentati di 700 volte negli ultimi due anni, hanno già dimostrato le loro potenzialità. «Con la cannabis possiamo realizzare ciò che è stato fatto con l’automobile», che in quindici anni è diventata il primo settore di esportazione del Marocco, ha spiegato il direttore generale dell’ANRAC Mohammed El-Guerrouj.

La legge approvata nel 2021 in Marocco prevede anche la riconversione delle colture illegali in attività legali: una specie di sanatoria che per ora sembra funzionare. Le superfici autorizzate sono aumentate e sono distribuite soprattutto tra Al Hoceima, Chefchaouen e Taounate, tre province della regione del Rif, nel nord, dove la coltivazione della cannabis ha una storia antica di secoli. È in aumento anche il numero degli agricoltori autorizzati, che oggi si avvicina a 3.300, sette volte in più rispetto a un anno fa. L’ANRAC ha calcolato che il prezzo pagato al produttore per un chilo di cannabis prodotta illegalmente va dai 10 ai 20 dirham (da 1 a 2 euro) rispetto ai 75 dirham (circa 7,5 euro) pagati invece per la cannabis autorizzata, i cui prezzi sono regolamentati.

L’uscita totale dall’illegalità è però ancora lontana e gli agricoltori che hanno fatto questa scelta rappresentano solo una piccola parte delle circa 400mila persone che lavorano senza licenza. Secondo l’ONU nel 2021 in Marocco sono state prodotte 23mila tonnellate di cannabis e 800 tonnellate di resina, dalla cui lavorazione si ottiene l’hashish: un dato che rende il paese uno dei principali fornitori al mondo. Il primo raccolto di cannabis legale nel 2023 ha prodotto però solo 296 tonnellate. Tutti i semi – più di 2 milioni – sono stati inoltre importati dall’Europa e la semina è avvenuta tra giugno e luglio, un periodo in cui nel paese le alte temperature hanno compromesso le coltivazioni comportando, secondo l’ANRAC, perdite pari al 20 per cento del raccolto.

Uno dei potenziali ostacoli alla competitività del Marocco in questo settore sono i rischi legati al clima. Aziz Makhlouf, direttore della cooperativa Bio Cannat, ha spiegato a Le Monde che la specificità delle colture marocchine, che sono tutte all’aperto, aumenta la loro dipendenza dalle condizioni climatiche, mentre la produzione europea avviene principalmente all’interno di serre.

Uno degli obiettivi dell’ANRAC è ora quello di autorizzare l’utilizzo di semi locali, quindi non importati, e di promuovere le varietà locali di cannabis, che consumano molta meno acqua, hanno una resa migliore, un minore impatto ambientale e la cui semina può iniziare già a febbraio. L’obiettivo è rendere disponibile per gli agricoltori entro il 2025 la varietà autoctona chiamata beldiya, coltivata da secoli anche per produrre un olio che cura alcune malattie della pelle, e per produrre stoffe, corde o cesti.

L’approccio di New York alla legalizzazione della marijuana non funziona

Rassegna Stampa dal Mondo: Il Post – Mercoledì 17 luglio 2024 – fonte: https://www.ilpost.it/2024/07/17/problemi-legalizzazione-marijuana-new-york/

Oggi in città ci sono migliaia di negozi che la vendono senza licenza, e il modo in cui è stata sdoganata pone dei rischi

Negli ultimi dodici anni decine di stati americani hanno legalizzato la cannabis a uso ricreativo. I primi furono Colorado e Washington, nel 2012, e i prossimi potrebbero essere Florida, Idaho, Nebraska e South Dakota, in caso gli elettori votino a favore delle proposte legislative in materia alle elezioni di novembre. Nello stato di New York è successo gradualmente: nel 2019 il governatore Andrew Cuomo depenalizzò il possesso di piccole quantità di marijuana a scopo ricreativo, che fino a quel momento poteva portare a una pena detentiva, permettendo a circa 600mila persone precedentemente arrestate di chiedere la revisione della loro condanna e la modifica della fedina penale.

Nel 2021, poi, entrò in vigore una legge che la legalizzava del tutto, consentendo a tutti i maggiori di 21 anni di possederne fino a 3 once (circa 85 grammi) e di coltivare fino a 6 piante per uso personale. Oggi chi va a New York non può non rimanere colpito dal forte odore di marijuana che si respira praticamente a ogni incrocio, per quanto è diventato normale e accettato fumarla in pubblico.

È stato però molto più difficile decidere chi abbia il diritto di aprire un negozio autorizzato alla vendita di marijuana a scopo ricreativo. Molti altri stati americani, dopo la legalizzazione, hanno semplicemente deciso di aprire il mercato a qualsiasi azienda o individuo avesse i soldi e la volontà di investire nel settore. A New York, invece, il nuovo Office of Cannabis Management (OCM) ha organizzato il programma CAURD, che sta per “Dispensari al dettaglio per uso da parte di adulti, a certe condizioni”. Il programma aveva l’obiettivo ambizioso di concedere inizialmente gran parte delle licenze a persone svantaggiate dalla “guerra alla droga”, la dura campagna del governo federale statunitense che dagli anni Ottanta ha l’obiettivo di eliminare il commercio illegale di droga, e che però storicamente ha colpito principalmente le minoranze etniche, provocando l’incarcerazione di migliaia e migliaia di giovani afroamericani. Una parte delle tasse pagate dai negozi autorizzati, poi, doveva essere reinvestita in ulteriori programmi sociali a favore di queste comunità marginalizzate.

Negli ultimi tre anni, però, l’attuazione del programma CAURD è stata molto accidentata, al punto che a marzo la governatrice dello stato Kathy Hochul l’ha definito «un disastro» e ha licenziato il direttore del dipartimento, che se ne andrà in autunno. Le indicazioni su tempi, costi e metodi per richiedere una licenza sono cambiate spesso e le tempistiche sono state ulteriormente sballate dall’ordine di un giudice che ha temporaneamente bloccato parti del programma ritenendo che non rispettassero il testo della legge del 2021.

La conseguenza è che oggi in tutto lo stato esistono soltanto 85 negozi autorizzati alla vendita di marijuana a scopo ricreativo, ma nella sola città di New York sono più di duemila quelli che hanno aperto illegalmente, senza aspettare di richiedere e ottenere la licenza per poterlo fare.

Uno stand di prodotti commestibili a base di marijuana al Cannabis World Congress di New York, nel 2017 (Spencer Platt/Getty Images)

Per capire come mai New York abbia deciso di tentare un approccio incentrato sull’equità e il reinserimento socioeconomico delle persone più danneggiate dalla guerra alla droga bisogna prima conoscere un po’ di storia. Fino al 2019, nello stato di New York in teoria non era un problema possedere una piccola scorta di cannabis, ma era illegale fumarla o anche soltanto essere avvistati in suo possesso in pubblico in base a una legge del 1977.

Per decenni, la legge non aveva portato a grosse conseguenze: il numero di persone arrestate ogni anno per possesso in pubblico di droga raramente superavano il migliaio, e nel 1992 erano state solo 722. Le cose cambiarono però con l’amministrazione di Rudy Giuliani, che negli anni Novanta incoraggiò la cosiddetta pratica dello stop-and-frisk, che in inglese sta per “ferma e perquisisci”: sostanzialmente, la polizia poteva fermare chiunque trovasse per strada sulla base di vaghi sospetti e chiedergli di vuotare le tasche. Se qualcuno aveva in tasca della marijuana, svuotandole lo mostrava pubblicamente, ponendo gli estremi per l’arresto. Tra il 1990 e il 2018 le persone arrestate per reati minori legati alla cannabis furono più di 867mila.

A essere particolarmente colpita dalle conseguenze dello stop-and-frisk furono i giovani afroamericani, che statisticamente venivano fermati molto più spesso dei propri coetanei di altre etnie: tra il 2002 e il 2017 era 12 volte più probabile che a essere arrestato per possesso di marijuana fosse un newyorkese nero che uno bianco. Il tema fu più volte sollevato da organizzazioni e campagne contro il razzismo negli anni successivi, e molti abitanti di New York (una città che tende a essere politicamente più progressista di gran parte del resto degli Stati Uniti) cominciarono a vedere la legalizzazione della cannabis non solo come un tema di libertà personale, ma anche come un modo di porre rimedio, almeno in parte, ai danni e agli anni di carcere inflitti in precedenza alle comunità marginalizzate.

Una manifestazione contro la pratica dello stop-and-frisk a New York, nel 2012 (AP Photo/Seth Wenig, File)

La legge del 2021, oltre a legalizzare la marijuana a uso ricreativo, diceva quindi anche che il 40 per cento delle entrate fiscali legate alla vendita di cannabis doveva essere reinvestito nelle comunità dove in passato la polizia aveva effettuato un numero sproporzionato di arresti legati al possesso di sostanze stupefacenti, e poneva l’obiettivo di assegnare la metà di tutte le licenze di vendita a donne, persone non bianche, veterani disabili, agricoltori in difficoltà e residenti di quartieri sovraffollati. Il programma CAURD introdusse ulteriori limitazioni, decidendo di rilasciare le prime licenze soltanto a persone precedentemente incarcerate per possesso di cannabis o ai loro familiari.

Secondo un report pubblicato a marzo, però, gran parte dei dirigenti dell’Office of Cannabis Management non aveva mai guidato un ente di regolamentazione in precedenza e ha perseguito gli obiettivi in modo caotico. Per esempio, i dirigenti del dipartimento hanno modificato il processo necessario a presentare domanda per ottenere una licenza talmente spesso che il 90 per cento delle domande è stato rimandato indietro almeno una volta con la richiesta di correzioni formali.

Gran parte dei problemi in cui è incappata l’agenzia, però, ha a che fare con il modo in cui è strutturato il settore della marijuana legale negli Stati Uniti. Come ha spiegato Jia Tolentino sul New Yorker, «investire nella cannabis legale è tipicamente uno sport riservato alle persone che possono contare su grossi capitali». Aprire un negozio può costare milioni di dollari, e le tasse sono particolarmente alte perché la marijuana è ancora illegale a livello federale, quindi i proprietari non possono chiedere il rimborso di gran parte delle loro spese aziendali. La legge del 2021, poi, proibiva l’integrazione verticale – ovvero la possibilità che una stessa azienda possieda le coltivazioni, la distribuzione e i negozi, controllando sostanzialmente l’intera filiera – e chiedeva alle aziende già attive nel mercato della marijuana a scopo medico di aspettare tre anni dal passaggio della legge prima di poter fare richiesta per una licenza.

CAURD doveva aiutare i piccoli imprenditori a entrare nel settore offrendo spazi per i negozi a prezzi vantaggiosi e l’accesso a un fondo di 200 milioni di dollari, ma nessuna delle due cose è successa. Il costo della sola richiesta di licenza era di duemila dollari, non rimborsabili anche in caso di rifiuto. Per di più, la nuova legge non prevedeva un percorso per incentivare le persone coinvolte nel mercato nero a spostarsi in quello legale, ed escludeva quindi molti commercianti e coltivatori che non erano mai stati arrestati.

All’inizio del 2022, secondo il New Yorker, circa 900 persone presentarono una richiesta: ne vennero approvate soltanto 36. Il primo negozio di cannabis legale nello stato aprì il 29 dicembre 2022 vicino a Washington Square Park, a New York: Tolentino racconta che «la fila attraversava l’intero isolato». «Quando è cominciato il 2023», riassume, «New York aveva quindi un negozio autorizzato alla vendita di erba e circa 1400 posti che facevano illegalmente la stessa cosa».

Smacked, il primo negozio di cannabis legale aperto grazie al progetto CAURD a New York (AP/John Minchillo)

I negozi illeciti hanno molte forme diverse: certi sono ampi, illuminati e ripuliti in un modo che ricorda un po’ un punto vendita Apple, altri hanno rimpiazzato le piccole e caratteristiche bodegas di quartiere e sono quindi piccoli, caotici e all’apparenza un po’ loschi. Ne sono spuntati molti anche negli altri stati dove la cannabis è stata legalizzata: in California, per esempio, si stima che circa la metà della marijuana prodotta dai coltivatori legali venga introdotta nel mercato illegale.

«L’esplosione dei negozi di erba senza licenza a New York City, però, non ha eguali», scrive Tolentino. «Ciò è dovuto, tra le altre cose, all’enorme numero di negozi e alla cultura imprenditoriale iperattiva della città, dove i distributori automatici sono perennemente in fiore. Ma anche al fatto che la polizia della città non ha più il diritto di perquisire auto o persone sospette dicendo di sentire “odore di marijuana” e quindi sembra aver perso ogni interesse a vigilare sull’uso di cannabis». In teoria i negozi illeciti possono essere sanzionati in vari modi. Nella pratica, però, le rare volte che vengono multati o subiscono una retata della polizia i proprietari chiudono per qualche giorno e poi riaprono poco dopo.

Una parte del problema è dovuta alla grande lentezza e confusione attorno all’approvazione delle licenze. Nell’agosto del 2023, un gruppo di veterani fece causa all’OCM dicendo che il progetto CAURD discriminava varie categorie di persone considerate svantaggiate dalla legge: il giudice bloccò gran parte del programma, incluse le licenze di decine di aziende. A ottobre, l’OCM cominciò a permettere a chiunque di fare richiesta, ma a quel punto tra molte persone interessate al settore era passata l’idea che in qualsiasi momento le licenze potessero smettere di essere valide. Oggi in tutto lo stato di New York i negozi autorizzati a vendere cannabis sono ancora solo 145, a fronte di migliaia di punti vendita illeciti.

– Leggi anche: Negli Stati Uniti le persone che dicono di fare uso quotidiano di marijuana sono di più rispetto a quelle che lo dicono per l’alcol

Secondo l’esperto di politiche pubbliche Charles Fain Lehman, che ha recentemente scritto un lungo pezzo d’opinione sul New York Times, un altro problema è che una parte significativa di chi fuma marijuana (il 37 per cento) negli Stati Uniti lo fa tutti i giorni. A quel livello di consumo, la differenza di prezzo tra la cannabis venduta nei negozi autorizzati – su cui vengono applicate specifiche tasse, e che costa di più per i proprietari perché viene sottoposta a vari test prima di essere messa in vendita – e quella venduta nei negozi senza licenza incide in modo notevole.

Le persone che ne fanno un uso così frequente, scrive Lehman, «vogliono consumarne una certa quantità, indipendentemente da quanto costa acquistarla. In termini economici, la loro domanda è “anelastica”: in generale, non rispondono all’aumento dei prezzi consumando meno. Potrebbero invece provare a ridurre altri costi o cercare prodotti più economici. Quel prodotto più economico spesso va a scapito di altre qualità, come la sicurezza o l’approvvigionamento etico».

Lehman collega questa dinamica a un aspetto a suo avviso trascurato nel dibattito pubblico che ha portato alla progressiva liberalizzazione della marijuana in parte degli Stati Uniti. La cannabis infatti è una sostanza che provoca dipendenza in una parte dei suoi consumatori, anche se con effetti normalmente molto meno nocivi di una dipendenza dall’alcol o da altre droghe. «È una cosa che nessuno – né i leader di New York né i milioni di statunitensi entusiasti della legalizzazione – vuole sentirsi dire», dice Lehman.

Dopo decenni in cui la marijuana è stata descritta strumentalmente come una droga pericolosa, da qualche anno (negli Stati Uniti ma sempre di più anche in Italia) sono molto aumentate le persone che la ritengono una sostanza sostanzialmente innocua, o quanto meno molto meno pericolosa di altre che invece sono perfettamente legali, come l’alcol. Oggi la marijuana è entrata massicciamente nell’economia e nella cultura popolare statunitense, tanto che nel 2022 erano 60 milioni le persone (su 330 milioni circa) a dichiarare di consumarla.

Secondo gli studi più recenti, la marijuana non induce sintomi fisici d’astinenza comparabili a quelli che mostrano le persone dipendenti dall’alcol, ma succede che una quota significativa dei consumatori abituali di cannabis sviluppi una dipendenza, avvertendo sintomi come ansia, irritabilità, depressione, tensione fisica o mal di testa quando smettono di usarla per un po’. I Centers for Disease Control and Prevention, il principale ente di salute pubblica statunitense, stima che circa 3 consumatori di marijuana su 10, pari a circa 19 milioni di persone nel 2023, soffra di «incapacità di interromperne l’uso anche se provoca problemi di salute e sociali».

Questo fenomeno, spiega Lehman, è stato alimentato anche dal fatto che i produttori di cannabis l’hanno selezionata in modo da renderla progressivamente sempre più psicoattiva, aumentando il contenuto del principio attivo (il THC) al punto che quella disponibile oggi sul mercato statunitense non è nemmeno paragonabile per intensità a quella che si consumava fino a una decina di anni fa. Il fatto che i problemi di salute e sociali che hanno le persone dipendenti dalla marijuana non siano paragonabili per intensità e conseguenze a quelli che hanno le persone dipendenti dall’alcol, però, fa sì che non sia un fenomeno tenuto in particolare considerazione.

«Il fatto che la marijuana crei dipendenza non significa necessariamente che debba essere illegale, né dev’essere usato per condannare i consumatori», scrive Lehman. «Al contempo, però, se la marijuana crea un problema di salute per almeno il 30% dei consumatori, allora forse il governo dovrebbe preoccuparsi di come influisce sulla salute pubblica», dice Lehman, che ricorda che quando un prodotto può creare una dipendenza per il consumatore, i suoi interessi non coincidono con quelli delle aziende che lo producono, come è il caso delle sigarette e dell’alcol.

«I consumatori di marijuana – quanto i beneficiari di prestiti ad alto interesse o gli acquirenti di altre droghe legali – potrebbero aver bisogno di una qualche forma di protezione dei consumatori», suggerisce Lehman. E il mercato paralegale che si è creato a New York non ne garantisce molte, anche se è lì che si riversa la stragrande maggioranza dei consumatori abituali, attirati dai prezzi molto più bassi.

Soluzioni diverse da quella newyorkese, che hanno delineato una sorta di compromesso tra la legalizzazione e il divieto, offrono secondo Lehman delle garanzie in più da questo punto di vista. È il caso dei Paesi Bassi, dove la vendita di piccole quantità marijuana nei coffee shop è tollerata, anche se il possesso sopra una certa quantità e la produzione sono illegali. O il caso della Germania, dove da alcuni mesi è legale acquistarne pochi grammi al mese in specifici “cannabis club”, che possono accettare un numero limitato di iscritti.

«Questi modelli hanno i loro problemi, ma sono molto distanti dalla becera commercializzazione che emerge dall’approccio americano», dice Lehman. Un possibile modo per cambiarlo, suggerisce, sarebbe pensare alla marijuana come al tabacco: qualcosa il cui consumo occasionale non è pericoloso né socialmente né per la salute, ma anzi piacevole. Ma che può anche creare dipendenze che invece possono provocare problemi. Nel corso degli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno limitato drasticamente il consumo di tabacco con molte campagne di prevenzione pubblica di successo. «La nostra esperienza con le sigarette dimostra che soltanto perché una sostanza è tecnicamente legale non significa che come società ci deve piacere. Né che il governo non possa disincentivarne il consumo senza vietarla».

BOIA CHI ROLLA – GRAMELLINI SBERTUCCIA FRANCESCO LOLLOBRIGIDA DOPO L’ULTIMA GAFFE SULLA CANNABIS LIGHT

Rassegna Stampa: 5 GIU 2024Dago Spia con Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”Fonte: https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/boia-chi-rolla-ndash-gramellini-sbertuccia-francesco-lollobrigida-dopo-397297.htm

BOIA CHI ROLLA – GRAMELLINI SBERTUCCIA FRANCESCO LOLLOBRIGIDA DOPO L’ULTIMA GAFFE SULLA CANNABIS LIGHT (“SE TE DEVI FA ’NA CANNA, FATTELA BENE!”): “OGNI GOVERNO HA AVUTO UN MINISTRO CON DELEGA AL BUONUMORE, E IL PENSIERO CORRE GRATO A TONINELLI. ANCHE SANGIULIANO ERA PARTITO FORTE, POI SI È UN PO’ PERSO IN UN OCEANO DI GRAVITAS. INVECE LOLLOBRIGIDA È SEMPRE SUL PEZZO. IL ‘LOLLO HIPPY’ MANCAVA ALLA COLLEZIONE. LO METTO ACCANTO AL LOLLO VIAGGIATORE CHE FERMA I TRENI E…”

Lollobrigida: “Cannabis light no. Se ti devi fa ‘na canna, fattela bene” — Il Grande Flagello (@grande_flagello) June 3, 2024


Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA MEME SULLA CANNABIS LIGHT 8

Giuseppe Ferrante de L’aria che tira si aggira in piazza tra i fratelli d’Italia, chiedendo loro che cosa pensino della cannabis light. Quelli mangiano la foglia, è il caso di dirlo, e alla vigilia delle elezioni si rifugiano in risposte laterali, altrimenti poi chi la sente Giorgia detta Giorgia? Finché il microfono arriva a lui. Il mio idolo.

Quando mi ritrovo a corto di idee, cioè quasi sempre, digito il suo cognome su Google — «Lollobrigida» — sperando che mi illumini con qualche «lollata». E non mi delude, mai. Neanche stavolta: «Light no», afferma l’esponente del partito proibizionista. «Se te devi fa ’na canna, fattela bene!». […]

Ogni governo ne ha avuto uno con delega al buonumore, e il pensiero corre grato a Toninelli. Anche Sangiuliano era partito forte, poi si è un po’ perso in un oceano di gravitas. Invece Lollobrigida è il Sinner delle figuracce: sempre sul pezzo, le prende tutte.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA MEME SULLA CANNABIS LIGHT

Il Lollo hippy mancava ancora alla collezione. Non vedo l’ora di metterlo accanto al Lollo bucolico che parla con le mucche, al Lollo viaggiatore che ferma i treni a comando e al Lollo pacifista che ferma addirittura le guerre, semplicemente invitandole a cena. Tutti a chiedersi perché la Meloni abbia portato suo cognato al governo, quando è così evidente: per rassicurare le cancellerie e i mercati, anche quelli rionali. […]

Cannabis, la gaffe di Lollobrigida: “Light no, se te la devi fa’ ‘na canna fattela bene!”

Rassegna Stampa: del 03/06/2024 VIDEO LA7 – L’ARIA CHE TIRA – Fonte: https://www.repubblica.it/politica/2024/06/03/video/cannabis_light_lollobrigida-423156510/?ref=RHRT-BG-P1-S1-T1

VIDEO LA7 – L’ARIA CHE TIRA

Prima la dichiarazione istituzionale, poi quella personale. “Non punto a trasformare i nostri campi di grano, le nostre coltivazioni, in campi di cannabis light, anzi. Penso che possiamo sopravvivere anche senza”, afferma Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste del governo Meloni. Ma quando il giornalista Giuseppe Ferrante de La7 gli chiede provocatoriamente: “Le è mai venuta voglia di provarla? Io ce l’ho qui”, Lollobrigida risponde in romanesco: “No, light no. Se te la devi fa’ ‘na canna, fattela bene no?”.


Ecco il Link Originale della 7

https://www.la7.it/laria-che-tira/video/fratelli-ditalia-ma-non-figli-dei-fiori-francesco-lollobrigida-light-no-se-te-la-devi-fa-na-canna-03-06-2024-545735


La domanda sorge spontanea, ma si possano rilasciare simili dichiarazioni da persone del governo, ministri e gente che decide norme per il paese? Siamo oltre la vergogna.

Si parla di tentare di chiudere 1500 aziende produttrici di Cannabis Light e l’indotto produttivo fino ai negozi di rivendita che impiegano fra le 25.000/30.000 persone, che pagano tasse al governo.

Magari prima di dire “Non punto a trasformare i nostri campi di grano, le nostre coltivazioni, in campi di cannabis light, anzi. Penso che possiamo sopravvivere anche senza”, bisognerebbe informarsi che nessun campo di grano è stato sostituito dalla Cannabis Light.

Piuttosto molti terreni lasciati incolti da nonni e padri sono stati recuperati e riutilizzati dai giovani reintroducendo una coltivazione che era diffusissima negli anni ’30 e questo non ha fatto dei nostri avi dei tossicodipendenti.