Cannabis terapeutica, poco conosciuta e ancora troppo poco prescritta
Rassegna Stampa – 25 SETTEMBRE 2020 – di VIOLA RITA – Fonte:
Uno studio inglese mette in luce che anche se nel Regno Unito è legale e disponibile da un anno e mezzo, le prescrizioni sono quasi a zero. In Italia siamo più avanti ma ancora la resistenza a prescriverla è elevata. I motivi dietro alla resistenza dei medici
DA PIÙ di 10 anni in Italia i medici possono prescrivere la cannabis per uso medico per diverse patologie e condizioni cliniche. Nonostante sia trascorsa più di una decade, le prescrizioni sono ancora basse. E non è così soltanto in Italia. Uno studio condotto nel Regno Unito dall’Imperial College London e dalla London School of Economics and Drug Science mostra che qui, a distanza di 20 mesi dalla legalizzazione, le prescrizioni sono quasi a zero e i medici assumono atteggiamenti scettici. La ricerca, pubblicata su Bmj Open, indaga le cause di questa resistenza.
Nel Regno Unito
Dall’indagine inglese è emerso che migliaia di pazienti si auto-prescrivono prodotti illegali a base di cannabis ad uso medico e questo avviene, spiegano gli autori, a causa del fatto che medici e farmacisti non hanno ancora abbracciato l’opzione, nonostante molti preparati medicinali siano già disponibili per i pazienti. I ricercatori hanno analizzato i dati dell’uso della cannabis terapeutica nel Regno Unito nell’ultimo anno. Non risulta quasi nessuna prescrizione tramite il sistema sanitario e si sono registrati meno di 100 acquisti da fornitori privati, oltretutto relativi a prodotti che costano almeno 1.000 dollari al mese. Per questo molti genitori di bambini con epilessia infantile grave che non risponde ad altre terapie – che rientra fra le patologie per cui la cannabis terapeutica si è dimostrata efficace ed è autorizzata – si spostano oltreoceano per ottenere i farmaci. In più gli autori sottolineano che ci sono 1.4 milioni di utenti che acquistano prodotti a base di cannabis a uso medico sul mercato nero, con tutti i rischi del caso. Insomma, le cifre parlano chiaro e mostrano che in Inghilterra l’aggiornamento sulla cannabis terapeutica c’è stato soltanto a livello legislativo ma non nella pratica.
La situazione in Italia
L’Italia è un poco più avanti del Regno Unito. Nel nostro paese i primi cambiamenti sono avvenuti nel 2007, quando il Tetraidroccanabinolo (Thc) è stato inserito nelle sostanze stupefacenti utilizzabili per realizzare medicinali: da quell’anno è possibile importare alcuni medicinali contenenti Thc. Tuttavia, all’epoca soltanto il Thc e non la cannabis intera – che è un insieme di vari ingredienti e sostanze di cui alcune non del tutto conosciute – era utilizzabile a scopo medico. Soltanto nel 2013, infatti, è stato adottato l’utilizzo della cannabis, sempre ad uso medico, in toto, con la dicitura ‘medicinali stupefacenti di origine vegetale a base di cannabis’ (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture) nel decreto legge 23 gennaio 2013.
Preparazioni o farmaci?
Questi preparati, come sottolinea il ministero della Salute, possono essere utilizzati in vari disturbi, anche se non c’è un’indicazione medica specifica, come avviene per tutti i farmaci per una determinata patologia e condizione, per cui c’è un’indicazione e un dosaggio indicati dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). La cannabis terapeutica non è una cura per le patologie per cui si è dimostrata efficace, ma può alleviare il dolore e i sintomi associati. Le patologie sono dolore cronico, spasmi muscolari in patologie neurologiche, nella nausea e nell’anoressia associata al cancro, all’Hiv e alla chemio e radioterapia, il glaucoma e la sindrome di Tourette. “L’unico medicinale che è autorizzato dall’Aifa e disponibile sul mercato è il Sativex – spiega Gioacchino Calapai, membro della Società Italiana di Farmacologia e della Società Italiana di Tossicologia, ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Messina – a base di Thc e cannabidiolo, indicato nei pazienti con spasmi muscolari dovuti a sclerosi multipla che non rispondono ad altri antispastici”.
Mentre a livello europeo, un altro farmaco, l’Epidiolex, a base di cannabidiolo, ha recentemente ricevuto l’approvazione per l’immissione in commercio da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), ma non ancora dall’Aifa, dunque non è ancora rimborsato in Italia. L’epidiolex è indicato in alcune forme epilettiche rare e gravi che non rispondono ad altri trattamenti. “La presenza di un unico medicinale con indicazioni specifiche dell’Aifa, il Sativex”, aggiunge Calapai, “è dovuta al fatto che le preparazioni a base di cannabis per uso medico sono numerosissime e la varietà delle sostanze contenute è molto variegata. Anche per questo ad oggi la cannabis terapeutica non è molto studiata all’interno delle sperimentazioni cliniche”. A parte il Sativex, dunque, i pazienti con dolore cronico e con le altre condizioni previste possono ricevere prescrizioni e sono trattati quasi esclusivamente con preparati magistrali dalle infiorescenze essiccate. “Questo elemento – sottolinea Calapai – unito alla scarsa formazione e alla disinformazione sul tema rappresenta un forte ostacolo alla prescrizione della cannabis terapeutica”.
Fra scarsa formazione e preoccupazioni
La formazione dei medici e degli operatori sanitari, infatti, non è adeguata ai tempi e alle nuove disposizioni di legge, secondo l’esperto. “Fino a pochi anni fa la formazione universitaria e post-universitaria si concentrava sui possibili danni dovuti al consumo di cannabis – fa notare Calapai – e non sull’efficacia della cannabis medica nell’alleviare il dolore e alcuni sintomi in specifiche patologie”. Questo gap di conoscenze alimenta la resistenza alla prescrizione. “Un altro farmaco – aggiunge l’esperto – indicato in alcune forme rare e gravi di epilessia infantile, che non risponde ad altri trattamenti è l’Epidiolex, basato sul cannabidiolo, che si è rivelato efficace”.
Anche gli autori dello studio inglese su Bmj Open segnalano la preoccupazione dei medici inglesi per la mancanza di prove scientifiche a supporto dell’efficacia della cannabis terapeutica. Questo perché spesso mancano studi clinici approfonditi. Ma gli autori spiegano che se si dà voce a queste preoccupazioni non si tiene conto della presenza di varie ricerche (forse meno approfondite) che mostrano l’efficacia e un importante miglioramento dei sintomi nel caso di persone con malattie in cui le altre terapie non funzionano o non sono tollerate. Insomma, secondo i ricercatori inglesi, l’idea che si possa procedere soltanto in presenza di studi clinici deve essere messa da parte in favore di un approccio maggiormente centrato sul paziente, anche considerando che le stesse Food and Drug Administration (Fda) statunitense e l’Ema europea hanno approvato circa 50 medicinali, dal 1999 al 2014, in assenza di questi specifici studi clinici.