Cannabis light tra sequestri e assoluzioni, i produttori trattati come narcos
Rassegna Stampa: La Stampa 04 Luglio 2024 di CLAUDIO LAUGERI – Fonte: https://www.lastampa.it/cronaca/2024/07/04/news/cannabis_inchiesta_controlli_sequestri-14445960/
Un settore da 3 mila aziende, 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. Le storie dei produttori: «Costretti a lavorare tra mille intoppi, siamo pronti ad acquistare i kit per i test rapidi»
Buongiorno, siamo della Guardia di Finanza. C’è questo pacco per lei». Dentro la scatola con i sigilli violati c’era un «campione» di qualche decina di grammi di infiorescenze di «canapa sativa», la base per il confezionamento di prodotti nella categoria conosciuta da tutti come «cannabis light», per via del basso contenuto di principio attivo (il Thc). Quando l’imprenditore si è trovato davanti i finanzieri ha sgranato gli occhi per il doppio stupore: per il pacco ritrovato (il corriere non si era più fatto sentire) e per la consegna del tutto particolare. Ci hanno pensato i militari a svelare l’arcano: i cani antidroga avevano fiutato il plico, loro lo hanno aperto e hanno controllato la merce. Il principio attivo era bassissimo, per la Guardia di Finanza era tutto regolare. E per evitare di causare un danno, hanno fatto la consegna di persona. «Chapeau», in un Paese dove un ufficio pubblico non parla con quello della porta accanto. Anche perché, sovente le lingue sono diverse.
Ed eccoci sbarcati nella Babele della «cannabis light», prodotto che diventa legale o illegale a seconda delle convinzioni ideologiche, o anche soltanto di quanto forze dell’ordine e magistratura decidono di tirare l’elastico dell’interpretazione delle norme. A qualche maligno potrebbe sembrare che la «cannabis light» sia soltanto un pretesto per uno scontro ideologico di portata ben diversa: i sostenitori (soprattutto a sinistra) della liberalizzazione della «cannabis» contro i detrattori della sostanza. Un settore animato da 3 mila aziende, con 15 mila operatori e 500 milioni di fatturato. E soprattutto, non esistono «caporalato» e lavoratori «in nero», per un effetto combinato di approccio etico e rischio elevatissimo legato ai tanti controlli: chi non è titolare di imprese o partite Iva ha il contratto del settore agricolo.
La giungla delle regole
Proviamo a fare chiarezza. In cima alla torre c’è il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea il 26 ottobre 2012, che all’articolo 38 disciplina la politica comune per agricoltura e pesca. Il provvedimento è legato al Trattato di Roma del 1957 sulla Fondazione della Comunità economica europea, ridefinito e applicato nell’ambito dell’Unione. A proposito dell’agricoltura, inserisce in una tabella tutte le coltivazioni di riferimento, compresi «semi, frutti oleosi; semi e sementi e frutti diversi; piante industriali e medicinali; paglie e foraggi». Nessun riferimento specifico alla canapa a basso Thc (l’altra è già fuorilegge), ma nemmeno viene esclusa. Anche perché, le piante possono essere utilizzate per estrarre fibre destinate a tessuti o come componenti di materiali edili.
La normativa arriva un paio d’anni dopo il tentativo della Francia di vietare le coltivazioni di canapa, frenato da una sentenza della Corte di Giustizia europea del 28 gennaio 2010: «La valutazione del rischio che lo Stato membro deve effettuare ha ad oggetto la stima del grado di probabilità degli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’impiego di prodotti vietati e della gravità di tali effetti potenziali».
Il vento francese, però, soffia oltre le Alpi e nel 2014 il governo italiano approva un decreto che modifica la normativa del 1990 in materia di droga, proprio puntando alla «cannabis»: viene messa fuorilegge in qualsiasi forma, dalle foglie, alle inflorescenze, all’olio, alla resina, senza riferimenti al Thc. Una sola eccezione: «la canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali» diversi da quelli illeciti già disciplinati. Partita chiusa, sembrerebbe. Ma non è così.
Nel 2016, l’Italia approva la legge 242 in materia in pieno stile «gattopardo». Dice, ma non dice, dispone, ma non predispone, offre una lettura cangiante che attira i più audaci e desiderosi di fare business, ma divide anche la giurisprudenza chiamata in causa dagli stessi imprenditori davanti a denunce e sequestri. Complice la scomparsa nella stesura definitiva del valore-soglia di Thc per definire l’illegalità della pianta. L’unico accenno sull’argomento è a tutela del coltivatore, che potrebbe ritrovarsi con piante dal Thc tra lo 0,2 e lo 0,6 pur avendo agito nella totale buona fede. Nella prima eventualità, accade nulla; nella seconda, merce sequestrata e distrutta, ma nessun procedimento penale. Sia chiaro, è difficile pensare che un trafficante sano di mente pensasse di sfruttare la coltivazione legale come «cavallo di Troia» per far passare per buona anche qualche piantagione illegale: sotto il profilo criminale, l’idea di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine con un’attività «borderline» non appare geniale.
E allora? La canapa è fuorilegge in ogni sua forma? Forse no, perché fatta (male) la legge, gli orientamenti della giurisprudenza si moltiplicano.
La Cassazione
In un pronunciamento del 2007 proprio in materia di «cannabis», le Sezioni Unite della Cassazione avevano stabilito: «È indispensabile che il giudice di merito verifichi l’idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante». E per maggiore chiarezza, la Cassazione argomenta: «Ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo (Thc, ndr) contenuto nella sostanza, bensì l’idoneità a produrre un effetto drogante». E qui, spunta il sorriso sulla bocca dei produttori di «cannabis light». Già, perché è possibile discutere se a un Thc alto possa corrispondere un «effetto drogante» punito dalla legge, ma a un Thc basso non potrà mai corrispondere un «effetto drogante». Ma per stabilire tutto questo, serve un processo.
Stefano (nome di fantasia) ha 38 anni. Ha studiato psicologia a Roma, dove vive. Nel 2017, decide di intraprendere l’attività di coltivatore di «canapa light». «Ho subito otto controlli in quattro anni e due volte sono pure finito a processo per traffico di droga. Sempre assolto», racconta. La volta che se l’è vista peggio è stata «nel 2018, la Polstrada è arrivata all’ora di pranzo nel magazzino dove essiccavo la canapa. C’era un forte odore, lo sentivano dalla strada. In pochi minuti, sono arrivate venti pattuglie. Mi hanno tenuto lì fino all’una di notte, poi in cella di sicurezza, fino al mattino dopo. Mi hanno fotosegnalato, preso le impronte. Il mattino dopo mi hanno rilasciato. Però, il verbale su quella sera è sparito. Se n’è accorto anche il capo dell’antidroga di Roma, che ha fatto un altro controllo due anni dopo in seguito alla spedizione di un pacco». L’odore non lascia spazio a dubbi. Per gli uomini, figuriamoci per i cani antidroga.
«Ma non tutti si comportano nello stesso modo – aggiunge Stefano -. Una volta sono venuti i carabinieri del Nas e gli ispettori dell’Aifa (Agenzia del farmaco, ndr). Hanno preso i campioni, ci hanno lasciato lavorare senza problemi. Due mesi dopo ci hanno mandato via Pec i risultati, era tutto in regola». In un controllo, però, la merce è rimasta sotto sequestro per «tre mesi. Erano 300 chili di materiale, abbiamo buttato via tutto». Anche se la sentenza è stata di assoluzione. Ma lui lavora ancora, collegato a «altre quattro aziende. In tutto, fatturiamo 8 milioni di euro, l’anno scorso 7 milioni e 200 mila». E questo dà l’idea di quale partita sia in gioco. Ancora: «L’Italia è tra i pochi Paesi europei dove è possibile coltivare in campo aperto, il clima è favorevole. Siamo i leader del mercato per questo».
Ma la legge non è uguale per tutti. Paola, 42 anni, nel 2019 decide di abbandonare la cartolibreria di famiglia e di aprire una piccola coltivazione di canapa. «Qui, il clima è ottimo per le florescenze. Ma la coltivazione per fare fibre tessili o per l’edilizia non funzionerebbe, ci sono costi troppo alti di trasporto, racconta. Un anno di lavoro, buoni risultati. Nel 2020, la produzione viene spostata «in altri due Comuni. Come avevamo fatto l’anno prima, abbiamo avvisato i carabinieri di quelle zone, anche se non eravamo obbligati a farlo». I magazzini, però, erano rimasti nel paese di partenza, a pochi passi dalla caserma dei carabinieri. Risultato: i militari arrivano e sequestrano sette quintali di merce in fase di essiccazione e denunciano Paola per traffico di droga. Il valore all’ingrosso è di 200 euro al chilo, il valore è di 140 mila euro. «Mi sono guadagnata il soprannome di “Paola Escobar”», scherza. Adesso. Ma in quei giorni, non aveva tanti motivi per sorridere. «Avevano calcolato un valore di 6 milioni, come se fosse marijuana». Alla fine, arriva l’assoluzione, ma soltanto per mancanza del fattore soggettivo. «Secondo i giudici di Oristano, è illegale staccare i fiori dalla pianta, ma hanno capito che non avevo la volontà di commettere un reato. Però, ora non potrei più fare quell’attività, definita illegale in quella forma».
Giudici e investigatori
L’orientamento dei giudici di Oristano è condiviso anche da quelli di Nuoro, ma non a Sassari dove l’imprenditore si è visto arrivare a casa la Guardia di Finanza con il pacchetto di canapa. Nel marzo 2021, la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari aveva addirittura inviato una direttiva alle forze dell’ordine e ai colleghi magistrati richiamando «il quadro normativo composito e apparentemente contraddittorio» in materia di canapa e invitando a seguire l’indicazione delle Sezioni unite della Cassazione, laddove qualificano «la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà». Tradotto: andate e sequestrate. Nessun accenno alla parte della sentenza dove gli ermellini parlano di «effetto drogante». Forse, questo «effetto tunnel» è legato alla situazione particolare della Sardegna, dove negli ultimi anni si sono moltiplicate le coltivazioni di marijuana. Un’attività sempre esistita, ma incrementata quando la ‘ndrangheta ha deciso di concentrare i propri business sulla cocaina, a parità di peso ben più redditizia. Investigatori e magistratura sono preoccupati che la Sardegna possa diventare (se già non lo è) leader nel mercato illegale di marijuana. Poi, ci sono le insinuazioni dei maligni: sradicare le coltivazioni di «cannabis light» consentirebbe di individuare con maggiore facilità le piantagioni illegali. Tesi che trasformerebbe la Babele simbolo dell’incomunicabilità nel set di un film di Ridolini.
Le soluzioni
Per riportare l’ordine nella Babele della «cannabis light» basterebbe una legge. Chiara. O è legale o non lo è. Punto. «Per accertare all’istante la percentuale di Thc esiste un test rapido dell’Università di Zurigo – spiega Mattia Cusani, presidente dell’Associazione canapa sativa Italia -. Immaginando che lo Stato non abbia le risorse per acquistare questi test, possiamo farlo noi. Non abbiamo problemi a dimostrare la nostra correttezza. È nel nostro interesse un controllo rapido». In tutto questo, c’è qualcuno che incassa senza rischi: il Fisco. Già, perché i coltivatori di «cannabis light» si sono premurati di sapere come potevano essere in regola nei versamenti e hanno chiesto lumi all’Agenzia delle Entrate. Ottenuta la risposta, hanno ottemperato. La torre di Babele è servita.