È uno dei principali fornitori sul mercato illegale, ma negli ultimi anni sta facendo degli sforzi per regolarizzare coltivazioni vecchie anche di secoli
La scorsa settimana il Marocco ha esportato per la prima volta della cannabis prodotta legalmente sul proprio territorio. Un carico da un quintale di resina di cannabis, cioè un estratto molto concentrato delle infiorescenze della pianta, è stato infatti venduto alla Svizzera, dove i prodotti della canapa sono autorizzati se presentano una percentuale di THC (la molecola che causa gli effetti psicotropi) inferiore all’1 per cento.
Nonostante le quantità di questa prima esportazione non siano state molto significative, la vendita è stata commentata sulla stampa locale con grande entusiasmo e aspettative per un settore potenzialmente molto remunerativo, dato che in Marocco si coltiva già parecchia cannabis ma in maniera irregolare e destinata perlopiù a trafficanti.
Già nel 2021 il Marocco aveva approvato un disegno di legge per legalizzare la coltivazione e la commercializzazione della cannabis per uso medico e industriale, con l’obiettivo di attrarre investimenti e creare nuove opportunità economiche. Ad oggi sono quasi 200 gli operatori attivi in questo settore che potrebbe rendere il paese molto competitivo su un mercato globale estremamente redditizio. Nel 2028 per la sola componente terapeutica dovrebbe superare i 50 miliardi di dollari (46,2 miliardi di euro), secondo una stima del fondo di investimento americano Insight Partners.
Lo scorso maggio la Federazione marocchina dell’industria farmaceutica e dell’innovazione (FMIIP) ha fatto sapere che il Marocco vuole assicurarsi una quota del mercato europeo della cannabis terapeutica compresa tra il 10 e il 15 per cento, che potrebbe generare un flusso di entrate annuo compreso tra i 4,2 e i 6,3 miliardi di dirham (circa 400-600 milioni di euro) da qui al 2028. Queste risorse, ha spiegato il presidente della FMIIP, serviranno anche a creare nuovi posti di lavoro e a stimolare il settore della ricerca e sviluppo farmaceutica.
L’azienda farmaceutica marocchina Sothema, che nel 2023 ha fatturato 230 milioni di euro, sta investendo da tempo nei medicinali a base di cannabis e ne ha sviluppati una quindicina per «patologie dolorose come tumori, sclerosi multipla o epilessia». Khalid El-Attaoui, direttore di Axess Pharma, specializzata in trattamenti antitumorali, prevede di commercializzare medicinali del genere entro il 2025 sul mercato marocchino e anche quello europeo, nonostante restino da rimuovere una serie di barriere normative piuttosto rigide, quando si tratta di farmaci psicotropi.
Un ruolo centrale in questa strategia lo sta svolgendo l’Agenzia nazionale per la regolamentazione delle attività legate alla cannabis (ANRAC, creata nel 2022), che si occupa di supervisionare, regolamentare e aggiornare le norme cui è sottoposto il settore. Secondo l’ANRAC la cannabis marocchina, che dai giornali locali viene definita “oro verde”, potrà essere utilizzata in vari settori: non solo quello medico, ma anche quello tessile o dell’edilizia, grazie alla possibilità di sfruttare la pianta della cannabis in modi diversi.
Alcuni mercati di nicchia, come quello dei trattamenti per animali con prodotti a base di CBD, un principio attivo non psicotropo i cui ricavi globali sono aumentati di 700 volte negli ultimi due anni, hanno già dimostrato le loro potenzialità. «Con la cannabis possiamo realizzare ciò che è stato fatto con l’automobile», che in quindici anni è diventata il primo settore di esportazione del Marocco, ha spiegato il direttore generale dell’ANRAC Mohammed El-Guerrouj.
La legge approvata nel 2021 in Marocco prevede anche la riconversione delle colture illegali in attività legali: una specie di sanatoria che per ora sembra funzionare. Le superfici autorizzate sono aumentate e sono distribuite soprattutto tra Al Hoceima, Chefchaouen e Taounate, tre province della regione del Rif, nel nord, dove la coltivazione della cannabis ha una storia antica di secoli. È in aumento anche il numero degli agricoltori autorizzati, che oggi si avvicina a 3.300, sette volte in più rispetto a un anno fa. L’ANRAC ha calcolato che il prezzo pagato al produttore per un chilo di cannabis prodotta illegalmente va dai 10 ai 20 dirham (da 1 a 2 euro) rispetto ai 75 dirham (circa 7,5 euro) pagati invece per la cannabis autorizzata, i cui prezzi sono regolamentati.
L’uscita totale dall’illegalità è però ancora lontana e gli agricoltori che hanno fatto questa scelta rappresentano solo una piccola parte delle circa 400mila persone che lavorano senza licenza. Secondo l’ONU nel 2021 in Marocco sono state prodotte 23mila tonnellate di cannabis e 800 tonnellate di resina, dalla cui lavorazione si ottiene l’hashish: un dato che rende il paese uno dei principali fornitori al mondo. Il primo raccolto di cannabis legale nel 2023 ha prodotto però solo 296 tonnellate. Tutti i semi – più di 2 milioni – sono stati inoltre importati dall’Europa e la semina è avvenuta tra giugno e luglio, un periodo in cui nel paese le alte temperature hanno compromesso le coltivazioni comportando, secondo l’ANRAC, perdite pari al 20 per cento del raccolto.
Uno dei potenziali ostacoli alla competitività del Marocco in questo settore sono i rischi legati al clima. Aziz Makhlouf, direttore della cooperativa Bio Cannat, ha spiegato a Le Monde che la specificità delle colture marocchine, che sono tutte all’aperto, aumenta la loro dipendenza dalle condizioni climatiche, mentre la produzione europea avviene principalmente all’interno di serre.
Uno degli obiettivi dell’ANRAC è ora quello di autorizzare l’utilizzo di semi locali, quindi non importati, e di promuovere le varietà locali di cannabis, che consumano molta meno acqua, hanno una resa migliore, un minore impatto ambientale e la cui semina può iniziare già a febbraio. L’obiettivo è rendere disponibile per gli agricoltori entro il 2025 la varietà autoctona chiamata beldiya, coltivata da secoli anche per produrre un olio che cura alcune malattie della pelle, e per produrre stoffe, corde o cesti.
Oggi in città ci sono migliaia di negozi che la vendono senza licenza, e il modo in cui è stata sdoganata pone dei rischi
Negli ultimi dodici anni decine di stati americani hanno legalizzato la cannabis a uso ricreativo. I primi furono Colorado e Washington, nel 2012, e i prossimi potrebbero essere Florida, Idaho, Nebraska e South Dakota, in caso gli elettori votino a favore delle proposte legislative in materia alle elezioni di novembre. Nello stato di New York è successo gradualmente: nel 2019 il governatore Andrew Cuomo depenalizzò il possesso di piccole quantità di marijuana a scopo ricreativo, che fino a quel momento poteva portare a una pena detentiva, permettendo a circa 600mila persone precedentemente arrestate di chiedere la revisione della loro condanna e la modifica della fedina penale.
Nel 2021, poi, entrò in vigore una legge che la legalizzava del tutto, consentendo a tutti i maggiori di 21 anni di possederne fino a 3 once (circa 85 grammi) e di coltivare fino a 6 piante per uso personale. Oggi chi va a New York non può non rimanere colpito dal forte odore di marijuana che si respira praticamente a ogni incrocio, per quanto è diventato normale e accettato fumarla in pubblico.
È stato però molto più difficile decidere chi abbia il diritto di aprire un negozio autorizzato alla vendita di marijuana a scopo ricreativo. Molti altri stati americani, dopo la legalizzazione, hanno semplicemente deciso di aprire il mercato a qualsiasi azienda o individuo avesse i soldi e la volontà di investire nel settore. A New York, invece, il nuovo Office of Cannabis Management (OCM) ha organizzato il programma CAURD, che sta per “Dispensari al dettaglio per uso da parte di adulti, a certe condizioni”. Il programma aveva l’obiettivo ambizioso di concedere inizialmente gran parte delle licenze a persone svantaggiate dalla “guerra alla droga”, la dura campagna del governo federale statunitense che dagli anni Ottanta ha l’obiettivo di eliminare il commercio illegale di droga, e che però storicamente ha colpito principalmente le minoranze etniche, provocando l’incarcerazione di migliaia e migliaia di giovani afroamericani. Una parte delle tasse pagate dai negozi autorizzati, poi, doveva essere reinvestita in ulteriori programmi sociali a favore di queste comunità marginalizzate.
Negli ultimi tre anni, però, l’attuazione del programma CAURD è stata molto accidentata, al punto che a marzo la governatrice dello stato Kathy Hochul l’ha definito «un disastro» e ha licenziato il direttore del dipartimento, che se ne andrà in autunno. Le indicazioni su tempi, costi e metodi per richiedere una licenza sono cambiate spesso e le tempistiche sono state ulteriormente sballate dall’ordine di un giudice che ha temporaneamente bloccato parti del programma ritenendo che non rispettassero il testo della legge del 2021.
La conseguenza è che oggi in tutto lo stato esistono soltanto 85 negozi autorizzati alla vendita di marijuana a scopo ricreativo, ma nella sola città di New York sono più di duemila quelli che hanno aperto illegalmente, senza aspettare di richiedere e ottenere la licenza per poterlo fare.
Uno stand di prodotti commestibili a base di marijuana al Cannabis World Congress di New York, nel 2017 (Spencer Platt/Getty Images)
Per capire come mai New York abbia deciso di tentare un approccio incentrato sull’equità e il reinserimento socioeconomico delle persone più danneggiate dalla guerra alla droga bisogna prima conoscere un po’ di storia. Fino al 2019, nello stato di New York in teoria non era un problema possedere una piccola scorta di cannabis, ma era illegale fumarla o anche soltanto essere avvistati in suo possesso in pubblico in base a una legge del 1977.
Per decenni, la legge non aveva portato a grosse conseguenze: il numero di persone arrestate ogni anno per possesso in pubblico di droga raramente superavano il migliaio, e nel 1992 erano state solo 722. Le cose cambiarono però con l’amministrazione di Rudy Giuliani, che negli anni Novanta incoraggiò la cosiddetta pratica dello stop-and-frisk, che in inglese sta per “ferma e perquisisci”: sostanzialmente, la polizia poteva fermare chiunque trovasse per strada sulla base di vaghi sospetti e chiedergli di vuotare le tasche. Se qualcuno aveva in tasca della marijuana, svuotandole lo mostrava pubblicamente, ponendo gli estremi per l’arresto. Tra il 1990 e il 2018 le persone arrestate per reati minori legati alla cannabis furono più di 867mila.
A essere particolarmente colpita dalle conseguenze dello stop-and-frisk furono i giovani afroamericani, che statisticamente venivano fermati molto più spesso dei propri coetanei di altre etnie: tra il 2002 e il 2017 era 12 volte più probabile che a essere arrestato per possesso di marijuana fosse un newyorkese nero che uno bianco. Il tema fu più volte sollevato da organizzazioni e campagne contro il razzismo negli anni successivi, e molti abitanti di New York (una città che tende a essere politicamente più progressista di gran parte del resto degli Stati Uniti) cominciarono a vedere la legalizzazione della cannabis non solo come un tema di libertà personale, ma anche come un modo di porre rimedio, almeno in parte, ai danni e agli anni di carcere inflitti in precedenza alle comunità marginalizzate.
Una manifestazione contro la pratica dello stop-and-frisk a New York, nel 2012 (AP Photo/Seth Wenig, File)
La legge del 2021, oltre a legalizzare la marijuana a uso ricreativo, diceva quindi anche che il 40 per cento delle entrate fiscali legate alla vendita di cannabis doveva essere reinvestito nelle comunità dove in passato la polizia aveva effettuato un numero sproporzionato di arresti legati al possesso di sostanze stupefacenti, e poneva l’obiettivo di assegnare la metà di tutte le licenze di vendita a donne, persone non bianche, veterani disabili, agricoltori in difficoltà e residenti di quartieri sovraffollati. Il programma CAURD introdusse ulteriori limitazioni, decidendo di rilasciare le prime licenze soltanto a persone precedentemente incarcerate per possesso di cannabis o ai loro familiari.
Secondo un report pubblicato a marzo, però, gran parte dei dirigenti dell’Office of Cannabis Management non aveva mai guidato un ente di regolamentazione in precedenza e ha perseguito gli obiettivi in modo caotico. Per esempio, i dirigenti del dipartimento hanno modificato il processo necessario a presentare domanda per ottenere una licenza talmente spesso che il 90 per cento delle domande è stato rimandato indietro almeno una volta con la richiesta di correzioni formali.
Gran parte dei problemi in cui è incappata l’agenzia, però, ha a che fare con il modo in cui è strutturato il settore della marijuana legale negli Stati Uniti. Come ha spiegato Jia Tolentino sul New Yorker, «investire nella cannabis legale è tipicamente uno sport riservato alle persone che possono contare su grossi capitali». Aprire un negozio può costare milioni di dollari, e le tasse sono particolarmente alte perché la marijuana è ancora illegale a livello federale, quindi i proprietari non possono chiedere il rimborso di gran parte delle loro spese aziendali. La legge del 2021, poi, proibiva l’integrazione verticale – ovvero la possibilità che una stessa azienda possieda le coltivazioni, la distribuzione e i negozi, controllando sostanzialmente l’intera filiera – e chiedeva alle aziende già attive nel mercato della marijuana a scopo medico di aspettare tre anni dal passaggio della legge prima di poter fare richiesta per una licenza.
CAURD doveva aiutare i piccoli imprenditori a entrare nel settore offrendo spazi per i negozi a prezzi vantaggiosi e l’accesso a un fondo di 200 milioni di dollari, ma nessuna delle due cose è successa. Il costo della sola richiesta di licenza era di duemila dollari, non rimborsabili anche in caso di rifiuto. Per di più, la nuova legge non prevedeva un percorso per incentivare le persone coinvolte nel mercato nero a spostarsi in quello legale, ed escludeva quindi molti commercianti e coltivatori che non erano mai stati arrestati.
All’inizio del 2022, secondo il New Yorker, circa 900 persone presentarono una richiesta: ne vennero approvate soltanto 36. Il primo negozio di cannabis legale nello stato aprì il 29 dicembre 2022 vicino a Washington Square Park, a New York: Tolentino racconta che «la fila attraversava l’intero isolato». «Quando è cominciato il 2023», riassume, «New York aveva quindi un negozio autorizzato alla vendita di erba e circa 1400 posti che facevano illegalmente la stessa cosa».
Smacked, il primo negozio di cannabis legale aperto grazie al progetto CAURD a New York (AP/John Minchillo)
I negozi illeciti hanno molte forme diverse: certi sono ampi, illuminati e ripuliti in un modo che ricorda un po’ un punto vendita Apple, altri hanno rimpiazzato le piccole e caratteristiche bodegas di quartiere e sono quindi piccoli, caotici e all’apparenza un po’ loschi. Ne sono spuntati molti anche negli altri stati dove la cannabis è stata legalizzata: in California, per esempio, si stima che circa la metà della marijuana prodotta dai coltivatori legali venga introdotta nel mercato illegale.
«L’esplosione dei negozi di erba senza licenza a New York City, però, non ha eguali», scrive Tolentino. «Ciò è dovuto, tra le altre cose, all’enorme numero di negozi e alla cultura imprenditoriale iperattiva della città, dove i distributori automatici sono perennemente in fiore. Ma anche al fatto che la polizia della città non ha più il diritto di perquisire auto o persone sospette dicendo di sentire “odore di marijuana” e quindi sembra aver perso ogni interesse a vigilare sull’uso di cannabis». In teoria i negozi illeciti possono essere sanzionati in vari modi. Nella pratica, però, le rare volte che vengono multati o subiscono una retata della polizia i proprietari chiudono per qualche giorno e poi riaprono poco dopo.
Una parte del problema è dovuta alla grande lentezza e confusione attorno all’approvazione delle licenze. Nell’agosto del 2023, un gruppo di veterani fece causa all’OCM dicendo che il progetto CAURD discriminava varie categorie di persone considerate svantaggiate dalla legge: il giudice bloccò gran parte del programma, incluse le licenze di decine di aziende. A ottobre, l’OCM cominciò a permettere a chiunque di fare richiesta, ma a quel punto tra molte persone interessate al settore era passata l’idea che in qualsiasi momento le licenze potessero smettere di essere valide. Oggi in tutto lo stato di New York i negozi autorizzati a vendere cannabis sono ancora solo 145, a fronte di migliaia di punti vendita illeciti.
– Leggi anche: Negli Stati Uniti le persone che dicono di fare uso quotidiano di marijuana sono di più rispetto a quelle che lo dicono per l’alcol
Secondo l’esperto di politiche pubbliche Charles Fain Lehman, che ha recentemente scritto un lungo pezzo d’opinione sul New York Times, un altro problema è che una parte significativa di chi fuma marijuana (il 37 per cento) negli Stati Uniti lo fa tutti i giorni. A quel livello di consumo, la differenza di prezzo tra la cannabis venduta nei negozi autorizzati – su cui vengono applicate specifiche tasse, e che costa di più per i proprietari perché viene sottoposta a vari test prima di essere messa in vendita – e quella venduta nei negozi senza licenza incide in modo notevole.
Le persone che ne fanno un uso così frequente, scrive Lehman, «vogliono consumarne una certa quantità, indipendentemente da quanto costa acquistarla. In termini economici, la loro domanda è “anelastica”: in generale, non rispondono all’aumento dei prezzi consumando meno. Potrebbero invece provare a ridurre altri costi o cercare prodotti più economici. Quel prodotto più economico spesso va a scapito di altre qualità, come la sicurezza o l’approvvigionamento etico».
Lehman collega questa dinamica a un aspetto a suo avviso trascurato nel dibattito pubblico che ha portato alla progressiva liberalizzazione della marijuana in parte degli Stati Uniti. La cannabis infatti è una sostanza che provoca dipendenza in una parte dei suoi consumatori, anche se con effetti normalmente molto meno nocivi di una dipendenza dall’alcol o da altre droghe. «È una cosa che nessuno – né i leader di New York né i milioni di statunitensi entusiasti della legalizzazione – vuole sentirsi dire», dice Lehman.
Dopo decenni in cui la marijuana è stata descritta strumentalmente come una droga pericolosa, da qualche anno (negli Stati Uniti ma sempre di più anche in Italia) sono molto aumentate le persone che la ritengono una sostanza sostanzialmente innocua, o quanto meno molto meno pericolosa di altre che invece sono perfettamente legali, come l’alcol. Oggi la marijuana è entrata massicciamente nell’economia e nella cultura popolare statunitense, tanto che nel 2022 erano 60 milioni le persone (su 330 milioni circa) a dichiarare di consumarla.
Secondo gli studi più recenti, la marijuana non induce sintomi fisici d’astinenza comparabili a quelli che mostrano le persone dipendenti dall’alcol, ma succede che una quota significativa dei consumatori abituali di cannabis sviluppi una dipendenza, avvertendo sintomi come ansia, irritabilità, depressione, tensione fisica o mal di testa quando smettono di usarla per un po’. I Centers for Disease Control and Prevention, il principale ente di salute pubblica statunitense, stima che circa 3 consumatori di marijuana su 10, pari a circa 19 milioni di persone nel 2023, soffra di «incapacità di interromperne l’uso anche se provoca problemi di salute e sociali».
Questo fenomeno, spiega Lehman, è stato alimentato anche dal fatto che i produttori di cannabis l’hanno selezionata in modo da renderla progressivamente sempre più psicoattiva, aumentando il contenuto del principio attivo (il THC) al punto che quella disponibile oggi sul mercato statunitense non è nemmeno paragonabile per intensità a quella che si consumava fino a una decina di anni fa. Il fatto che i problemi di salute e sociali che hanno le persone dipendenti dalla marijuana non siano paragonabili per intensità e conseguenze a quelli che hanno le persone dipendenti dall’alcol, però, fa sì che non sia un fenomeno tenuto in particolare considerazione.
«Il fatto che la marijuana crei dipendenza non significa necessariamente che debba essere illegale, né dev’essere usato per condannare i consumatori», scrive Lehman. «Al contempo, però, se la marijuana crea un problema di salute per almeno il 30% dei consumatori, allora forse il governo dovrebbe preoccuparsi di come influisce sulla salute pubblica», dice Lehman, che ricorda che quando un prodotto può creare una dipendenza per il consumatore, i suoi interessi non coincidono con quelli delle aziende che lo producono, come è il caso delle sigarette e dell’alcol.
«I consumatori di marijuana – quanto i beneficiari di prestiti ad alto interesse o gli acquirenti di altre droghe legali – potrebbero aver bisogno di una qualche forma di protezione dei consumatori», suggerisce Lehman. E il mercato paralegale che si è creato a New York non ne garantisce molte, anche se è lì che si riversa la stragrande maggioranza dei consumatori abituali, attirati dai prezzi molto più bassi.
Soluzioni diverse da quella newyorkese, che hanno delineato una sorta di compromesso tra la legalizzazione e il divieto, offrono secondo Lehman delle garanzie in più da questo punto di vista. È il caso dei Paesi Bassi, dove la vendita di piccole quantità marijuana nei coffee shop è tollerata, anche se il possesso sopra una certa quantità e la produzione sono illegali. O il caso della Germania, dove da alcuni mesi è legale acquistarne pochi grammi al mese in specifici “cannabis club”, che possono accettare un numero limitato di iscritti.
«Questi modelli hanno i loro problemi, ma sono molto distanti dalla becera commercializzazione che emerge dall’approccio americano», dice Lehman. Un possibile modo per cambiarlo, suggerisce, sarebbe pensare alla marijuana come al tabacco: qualcosa il cui consumo occasionale non è pericoloso né socialmente né per la salute, ma anzi piacevole. Ma che può anche creare dipendenze che invece possono provocare problemi. Nel corso degli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno limitato drasticamente il consumo di tabacco con molte campagne di prevenzione pubblica di successo. «La nostra esperienza con le sigarette dimostra che soltanto perché una sostanza è tecnicamente legale non significa che come società ci deve piacere. Né che il governo non possa disincentivarne il consumo senza vietarla».